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Purpose personale e purpose aziendale - Hbr Italia

RISORSE UMANE

Purpose personale e purpose aziendale

Una sintesi e possibile ma fino a che punto e auspicabile?

Marco Valigi, Giulio Xhaet

Giugno 2023

Purpose personale e purpose aziendale

IL FENOMENO delle great resignation , sviluppatosi nel contesto nordamericano successivamente alla pandemia, in concomitanza a un momento di stagnazione dell’economia e aumento complessivo del costo della vita, si è diffuso a partire dal secondo trimestre del 2021 anche in Italia. La portata e le caratteristiche della variante autoctona sono differenti da quelle del movimento oltreoceano; le ragioni profonde e generali che stanno alla base di ciò che sta accadendo, nel complesso, appaiono tuttavia analoghe.

Il modo in cui il mercato del lavoro si è configurato ed è stato organizzato a cavallo tra la fine degli anni Novanta e gli anni Duemila appare oggi inadeguato. I cambiamenti dell’ultimo triennio – in special modo quelli associati all’emergenza sanitaria e alla revisione delle partnership energetiche e della supply chain – hanno evidenziato la difficoltà, quando non l’incapacità, degli operatori economici di rispondere ai bisogni dei lavoratori. Questi ultimi, vedendo mutati i termini del tradizionale trade-off tra sicurezza del posto di lavoro e soddisfazione per l’impiego che si svolge, hanno infatti abbracciato l’idea che, in un quadro di crescente incertezza, il costo-opportunità associato alla ricerca della piena realizzazione di sé fosse inferiore rispetto al passato.

Il desiderio di compiere quello che viene definito come purpose personale, insomma, sembra si stia facendo strada anche in un contesto come quello italiano che, è noto, è caratterizzato da maggiori inerzie sul versante della mobilità di carriera e da un sostrato socioculturale nel quale l’individuo e l’autorealizzazione sono assai meno centrali rispetto ai sistemi liberali anglosassoni, primo dei quali gli Stati Uniti.

Che dalla pandemia in avanti un cambiamento sociale fosse in corso e che ciò si sarebbe ripercosso sull’organizzazione del lavoro e sulla relazione tra strutture aziendali e addetti era evidente. Tuttavia, riflettere su alcune forme peculiari che questo fenomeno sta effettivamente assumendo costituisce un passo ulteriore. Si tratterebbe infatti di un’apertura sul fronte della riflessione dalla quale, attraverso delle cosiddette domande generative , potrebbero scaturire spunti sulla cui scorta plasmare nuove organizzazioni o rivisitare modelli passati. In un quadro incerto, approcci ibridi e contaminazioni spesso si rivelano carte vincenti – efficaci e, appunto, efficienti.

Rispetto all’analisi del nesso (eventuale) tra purpose personale e aziendale uno snodo fondamentale riguarda proprio il significato e la posizione che nel processo assume la decisione di dimissionare dal proprio incarico. Per intraprendere un percorso diverso, anche in ambiti concreti come un tragitto a piedi, in auto o in motocicletta, arretrare, talora, rappresenta un’azione necessaria e funzionale a un successivo avanzamento su un altro itinerario, verso una destinazione differente. In strategia, si parla di “arretrare per avanzare’” e il passo indietro, appunto, non costituisce il fine dell’azione stessa, ma uno strumento necessario rispetto al suo pieno compimento. Attualmente – e in questo senso tra Italia ed estero non c’è differenza, perché in entrambi i casi l’orizzonte temporale dell’analisi è troppo limitato – non è ancora possibile trarre delle conclusioni sulle ragioni generali sottostanti la decisione di molti di lasciare il proprio impiego. Determinare se dalle dimissioni scaturirà una tendenza verso il rinnovamento, nuove professioni e un aumento di valore, anche in termini sociali, oppure se assisteremo a una ritirata verso la sfera del privato, con ulteriori appesantimenti per ammortizzatori sociali già sovraccaricati dalle pressioni generate dalla pandemia e dalle crisi internazionali, quindi, è fuori dalla portata di qualsiasi previsione onesta.

Affrontiamo dunque il problema di petto. Se un professionista o un manager di grande valore andasse a caccia del proprio purpose e delle proprie vocazioni, e si accorgesse che queste non collimano con il suo lavoro, dovrebbe lasciare l’azienda? Da quanto abbiamo potuto studiare e osservare in questi anni, a volte sì. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, è molto probabile che ciò non accada. Spesso, infatti, non è il contesto aziendale tout court a trovarsi in conflitto con la persona: sono il ruolo, le attività specifiche, le sue mansioni e responsabilità. In questi casi, un professionista può optare per il reframing , ovvero riformulare un problema (in questo caso il potenziale disallineamento tra purpose personale e aziendale) osservandolo da prospettive diverse e, allo stesso tempo, mettersi in azione per cambiare alcuni di questi elementi, o provare a farlo. Una metodologia concreta per agire in tal senso, del resto, si trova nel saggio Design Your Life, di Bill Burnett e Dave Evans – due “life designer” docenti a Stanford. Il loro corso di laurea è da diversi anni il più seguito dell’intero istituto – a nostro parere non casualmente.

Al di là delle preferenze dei singoli individui, poi, va sottolineato come gran parte dell’esito aggregato determinato delle loro scelte in materia di purpose personale dipenderà tuttavia dalle caratteristiche profonde del contesto socioeconomico e organizzativo nel quale la scelta di abbandonare le posizioni ricoperte avrà luogo. In tal senso, purtroppo, il caso italiano non lascia ben sperare. Se da un lato, in Italia, una crescita salariale inferiore rispetto alla media degli altri Paesi europei costituisce un incentivo positivo verso la realizzazione del purpose personale, dall’altro la bassissima mobilità del lavoro e il perdurare di ampie sacche di economie informali o sommerse limitano gli incentivi sul versante organizzativo verso l’armonizzazione con i bisogni e le aspirazioni dei singoli.

Il dimissionare costituisce un primo possibile passaggio del processo, non lo esaurisce. In assenza di un’adeguata massa critica, ovvero se tale fenomeno pur diffuso rimanesse disperso e disomogeneo al suo interno, appare difficile immaginare che possano determinarsi le condizioni strutturali perché le aziende rivedano il loro paradigma a favore di una maggiore integrazione tra finalità organizzative e scopi dei singoli.  Ugualmente, se il contesto – a causa della presenza strutturata di economie informali ad esempio – consentisse ai singoli lavoratori di eludere la questione, realizzando il proprio purpose , magari in maniera meno piena ed efficiente, ma senza dover dipendere dalla volontà/collaborazione di una data organizzazione, difficilmente le menzionate dimissioni si tradurranno in una qualche azione – anche collettiva – impattante sul mercato del lavoro stesso.

Infine, va detto, un contesto fortemente connotato dalla presenza di PMI di tipo “padronale” non agevola la trasformazione di cui abbiamo parlato all’inizio di questo articolo. Una realtà padronale, infatti, nel suo DNA ha già visto realizzarsi una forma di integrazione tra purpose personale – del fondatore, appunto, o del proprietario se fosse frutto di un’acquisizione – e aziendale. Integrare in questo modello il purpose di eventuali quadri dirigenziali, ove ci fossero, o della forza lavoro potrebbe essere una manovra innovativa, ma di certo non priva di incognite. Ciò che ha magari funzionato bene, infatti, potrebbe – nel pensiero della proprietà – andare peggio.

Di fronte a questa ipotesi, a prevalere sarebbe probabilmente una logica di controllo. Quando proprietà e management sono indivisi, infatti, questo tipo di contraddizione è dietro l’angolo e generalmente favorirà un approccio conservativo anziché innovativo, non ultimo perché in aziende padronali il purpose aziendale è un tema identitario e personale.

Senza voler fare i nostalgici, strizzando l’occhio a un certo tipo di marxismo, una convergenza tra i diversi purpose è possibile e, in certi casi e misure, auspicabile. La questione, tuttavia, non si limita alle scelte individuali o alla sommatoria delle stesse, ma si caratterizza per una dimensione geometrica che coinvolge in profondità le strutture sociali. Del resto, in un contesto altamente interconnesso nel quale la variabile digitale si sta inserendo in maniera forte ma non sempre nitida rispetto al suo impatto sugli esiti dei processi in cui è coinvolta, la relazione funzionale tra purpose personale e aziendale è impensabile che si esaurisca nella dialettica tra lavoratori e datori di lavoro.

 

Marco Valigi , ESCP Business School e Partner Governance Advisors. Giulio Xhaet , Partner Newton spa.

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