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Come l’intelligenza artificiale sta ridisegnando il lavoro - Hbr Italia

TECNOLOGIA

Come l’intelligenza artificiale sta ridisegnando il lavoro

L’impatto qualitativo e quantitativo di una tecnologia che ormai pervade quasi ogni aspetto dell’attivita lavorativa ai diversi livelli

Marco Bentivogli

Maggio 2022

Come l’intelligenza artificiale sta ridisegnando il lavoro

L’impiego degli algoritmi di intelligenza artificiale (IA) in moltissimi ambiti della nostra vita non è recente, ma è oggi connotato da una maggiore velocità e pervasività. La crescita delle capacità computazionali, di elaborazione e stoccaggio dei dati sta determinando mutamenti di grande portata. Il diluvio delle informazioni che riceviamo è crescente e rende difficile a ciascuno di noi elaborarle. Per questo deleghiamo il compito a una macchina logica (ma senza coscienza) molto efficace nel memorizzare le nostre indicazioni.

Uno degli aspetti su cui più si sorvola è l’impatto dell’IA sul lavoro. Vi sono diversi livelli di IA: da quella debole, a quella forte, a quella generale. Ovviamente il livello di capacità è determinante nel configurare un ruolo più o meno centrale della persona nel lavoro: dal livello forte a quello generale, gli algoritmi eguagliano e superano le capacità umane, rendendo la questione sempre più complessa. Ma, in ogni caso, in qualsiasi processo o attività articolata in input, elaborazione e output, la persona ha un ruolo importante. L’immissione dei dati non può essere delegata interamente alle macchine poiché si rischierebbe una “pesca a strascico” digitale in cui l’IA raccoglie informazioni di qualità, ma anche distorsioni di ogni tipo. La fase successiva, l’elaborazione va invece delegata alla macchina che, al termine, fornirà la sua valutazione. L’output è il risultato di un calcolo, a cui dobbiamo aggiungere la nostra decisione, basata su una valutazione in cui entrano in campo coscienza, etica, sentimenti, umanità[1].

È fondamentale non confondere il ruolo (insostituibile) della persona, con “l’autorizzazione” o l’elaborazione, ma valorizzarlo nelle fasi di input e nella decisione. Per esempio, la mappa collegata al GPS ci dice se andare in una direzione, ma la decisione resta a noi. Lo stesso vale per una perizia su un mutuo o per la qualità di un pezzo da produrre.

L’IA è dunque una sorta di cervello sintetico che abilita l’automazione dei processi e che, insieme a sistemi di organizzazione del lavoro evoluti e nuove competenze, sta cambiando il lavoro e la sua natura. Lo sforzo da fare è concentrare l’attenzione su come l’intelligenza artificiale sta ridisegnando (reshape) la forma e il contenuto del lavoro. Ulteriori effetti e policy necessarie sono importanti, ma successive a questa riflessione.

Un elemento fondamentale in questo approccio è di visione: il digitale è generalmente abbinato alla parola “virtuale”. Se quest’ultima viene declinata correttamente (ovvero tutto ciò che integra e potenzia la realtà e le capacità umane) facciamo un passo avanti. Se invece le affidiamo una funzione “sostitutiva” tout court si creano molti problemi. Un esempio interessante è l’esperimento condotto dall’University College di Londra, che ha monitorato il cervello degli automobilisti scoprendo che l’uso dei navigatori GPS mette a riposo i centri cerebrali, in sostanza li impigrisce. I ricercatori, utilizzando uno scanner Mri (Magnetic resonance imaging), hanno utilizzato alcuni video per ricreare le strade del popolare quartiere Soho a Londra. Generalmente, anche sulla base della propria conoscenza della città, si attivano due aree del cervello per determinare la distanza e il percorso fino alla destinazione. Ma l’utilizzo dei navigatori inibisce l’attivazione di queste due aree. Certo, se questo determina una riduzione dell’attenzione alla realtà che ci circonda, l’esperienza rischia di diventare anche pericolosa. Ma soprattutto se le risorse liberate non vengono impiegate in altro modo, ne conseguirà soltanto un impigrimento generale. La vera sfida sarà dunque la capacità di sviluppare nuove abilità diverse da quelle da cui ci liberano le macchine.

 

Contenuto e natura del lavoro

L’IA è stata definita l’arte di delegare alle macchine computazionali mansioni e compiti che oggi le persone sanno fare meglio. In realtà, quando è possibile, il costo di questa rinuncia alla delega è molto elevato: in termini di sicurezza del lavoro, della sua routinarietà e, conseguentemente, di senso e di qualità del lavoro stesso.  Allo stesso tempo, da un lato l’IA può essere uno stimolo nella nostra spinta e proiezione verso il futuro, ma dall’altro non deve rappresentare né un benchmark né l’oggetto di una sfida.

Peraltro, non tutto è delegabile. L’IA ha un vincolo: riconoscere tutte le azioni degli umani come qualcosa di “calcolabile”. Tutto ciò consente di definire il tipo di lavoro che dovremmo maggiormente sviluppare, quello in cui le nostre capacità sono incontendibili e non calcolabili con e da qualsiasi algoritmo o macchina pensante. La nostra unicità e irripetibilità sono, infatti, il risultato della nostra umanità, da cui derivano il nostro pensiero critico, laterale, strategico e la nostra dotazione di capitale semantico, cioè la nostra capacità di assegnare valore e significato alle cose.

L’intelligenza artificiale è ormai estremamente diffusa ed è molto alto il numero di macchine utensili, robot e dispositivi elettronici governati da algoritmi di IA, così come la gran parte dei software.

Alcuni dati empirici[2] per l’Italia evidenziano, già prima della pandemia, tra il 2010 e il 2018, una correlazione positiva tra le professioni esposte all’IA e quelle ad alto contenuto di attività cognitive. E una correlazione negativa, che sembra quindi far presagire uno spiazzamento, dei lavori routinari, sia impiegatizi sia manuali. Su questi ultimi è di grande interesse l’evidenza della solidità e della crescita di lavori manuali ad alto ingaggio cognitivo, quelle in cui il contributo della persona è ibridato con le macchine intelligenti. Lo stesso studio rileva, poi, che, nel nostro Paese, le professioni più esposte all’IA, sono concentrate nelle regioni settentrionali, dove risiede gran parte della manifattura italiana. 

 

Le potenzialità dell’IA

Generalmente l’IA aumenta la capacità produttiva e la possibilità di gestire un quantitativo di lavoro più grande. Accelera la velocità d'esecuzione dei processi e porta anche ad una riduzione del tempo per realizzarli. Eliminare azioni ripetitive, noiose ed alienanti e dedicare le persone a ruoli e mansioni più consoni agli umani. Inoltre, l’IA agevola un utilizzo più efficiente delle risorse naturali, riducendo in modo rilevante i consumi di materie prime e le spese di gestione senza deteriorare (anzi) la qualità del prodotto. Aumenta la sicurezza generale sul lavoro: minore prossimità con le macchine, maggiore integrazione e trasparenza dei processi produttivi, manutenzione predittiva di guasti, errori. In via generale, tutto ciò può rappresentare un volano (conveniente) per la crescita delle piccole e medie imprese.

L'intelligenza artificiale sta trasformando le mansioni lavorative e le occupazioni. Le analisi dei dati del mercato del lavoro in tutti i Paesi convergono su un aspetto: la domanda assoluta e relativa di competenze relative all'IA è cresciuta in tutti i settori industriali e gruppi occupazionali. I lavori che richiedono competenze di intelligenza artificiale hanno un differenziale salariale positivo dell'11% rispetto a lavori simili che non ne richiedono. Tuttavia, l'IA è almeno tanto una sfida tecnologica e manageriale quanto e prioritariamente culturale e progettuale. I reali guadagni di produttività arriveranno solo quando ci saranno manager e soprattutto architetti del nuovo lavoro in grado di utilizzare l'IA per creare e acquisire valore attorno alla persona.

 

I rischi e i temi aperti dal crescente impiego dell’IA sul lavoro

L’interazione e l’ibridazione uomo-macchina pensante sono in forte crescita ed evoluzione. È probabile che, nello specifico, l’intelligenza artificiale ridisegni l’ambiente di lavoro di molte persone, la natura, il contenuto professionale. Nuovi ambienti necessitano di “architetti del nuovo lavoro”. Le criticità, certo, sono evidenti in più ambiti.

1) Partecipazione e progettazione : se l’innesto delle tecnologie non viene accompagnato da un robusto investimento nella partecipazione dei lavoratori e nella progettazione delle nuove architetture queste ultime risulteranno deludenti rispetto ai risultati attesti; Un esempio? La minore porosità del tempo di lavoro che accresce lo stress e non fornisce benefici sulla produttività.

2) Gerarchie, relazioni e percorsi di acquisizione delle competenze di ruolo vanno tutte ripensate su nuovi paradigmi, altrimenti, l’impresa non funziona e il benessere delle persone si deteriora.

3) I lavoratori “esposti” all’impiego di IA hanno una maggiore occupabilità e salari più alti. Aspetto positivo che non deve determinare una polarizzazione tra lavoratori, con crescita di diseguaglianze; il correttivo è senza dubbio promuovere processi di inclusione colmando ritardi di competenze e di esperienze.

4) Le aziende con un potere di mercato eccessivo posso accentrare i guadagni relativi all’impiego di IA producendo la stessa polarizzazione tra “innovatori e lavoratori tradizionali” a livello di impresa. Per tali rischi, accanto a una moderna attività regolatoria, occorrerebbe comprendere e agevolare lo sviluppo territoriale all’interno di ecosistemi innovativi, gli unici che possono consentire di abbassare la soglia di accesso a competenze e tecnologie anche per le PMI. Senza un efficace lavoro di progettazione si creano ulteriori rischi di eccesso di carico di lavoro e di stress aggiuntivo. I costi organizzativi di implementazione dell’IA, l’assenza di politiche pubbliche efficaci di trasferimento tecnologico attraverso ecosistemi innovativi, rischiano di precludere la più grande potenzialità dell’IA: consentire di aumentare la scala di riferimento delle PMI e favorirne la crescita dimensionale.

 

Il nodo dei pregiudizi

Gli algoritmi possono migliorare il grado di oggettività dei processi di valutazione e selezione delle persone. Il nodo dell’obiettività e neutralità è ancora più problematico visto lo spostamento del lavoro verso un maggiore ingaggio cognitivo e una minore capacità di rendere valutabile e calcolabile in modo oggettivo l’apporto professionale umano. Tema aperto da decenni, ben prima dell’avvio della grande trasformazione digitale. Di nuovo c’è che gli algoritmi possono includere pregiudizi inconsci dei committenti e degli sviluppatori che tengono conto della serie storiche delle decisioni assunte e, in tal modo, rischiano di perpetrare i bias. Nel problema si trova la soluzione e qualche passo avanti perché è sempre più frequente la capacità di sviluppare algoritmi in grado di rilevare proprio stereotipi e pregiudizi (bias detection) per contribuire al loro superamento, e accrescerne la consapevolezza nella popolazione generale.

 

Condivisione e protezione

C’è poi un secondo tema su perimetro, proprietà e utilizzo dei dati del lavoro. La quantità e il set di dati che vengono scambiati è enorme ma spesso non trasparente e alcuni di essi possono riguardare informazioni sensibili. Nei contratti di lavoro andrebbe specificato il perimetro dei dati condivisi e il sistema di protezione dei dati stessi. Inoltre, riguardo alla definizione e alla condivisione degli obiettivi, l’IA consente un monitoraggio molto puntuale e in alcuni casi può spingere verso un impiego (saturazione) individuale incrementando il carico di lavoro in modo eccessivo o definire obiettivi difficilmente conseguibili. Senza un analogo monitoraggio sul benessere delle persone, l’aumento di carico diviene devastante per lavoratori, ma anche per risultati aziendali. Il tempo di lavoro diviene meno “poroso” e gli spazi di contributo cognitivo sono compensati in modo negativo da una crescita di stress.

 

IA e mercato del lavoro

Nell'ultimo secolo, la tecnologia ha creato più posti di lavoro di quanti ne abbia rimpiazzati. La tecnologia e l'innovazione stanno cambiando la natura del lavoro, portando alla domanda di abilità cognitive avanzate e una maggiore adattabilità tra i lavoratori. I dati di numerose ricerche sull'Europa ci indicano che mentre la tecnologia sostituisce alcune mansioni, in generale aumenta anche la domanda di lavoro. Complessivamente, si stima che proprio la tecnologia che sostituisce il lavoro di routine abbia creato oltre 23 milioni di posti di lavoro in tutta Europa dal 1999 al 2016 (Gregory 2016).
 

 
Il digitale “scongela” lo spazio (i suoi luoghi) e il tempo (gli orari) del lavoro. Mette in discussione l’autostrada bicolore lavoro dipendente/autonomo. Cresce la terza corsia, non solo per i lavori collegati alle piattaforme, ma per tutto il lavoro. Le resistenze culturali e ideologiche al riconoscimento del nuovo lavoro lo consegnano al vuoto di nuove normative e di nuovi contenitori giuridici e contrattuali. Le modalità e le condizioni con cui le persone lavorano richiederebbero un urgente ripensamento dei sistemi di protezione sociale che, specie in Italia, non tutelano i contratti non-standard, come le partite iva.
Non solo, per valutarne la sostituibilità, ricordiamo sempre che l’IA non sa fare tutto e che anche le persone hanno abilità molto diversificate: secondo l’indagine Ocse del 2017 “Computers and the Future of Skill Demand”, solo l’11% degli adulti è attualmente al di sopra del livello di abilità che l’IA è vicina a riprodurre. La gran parte è molto al di sotto. Tema che chiama in causa un ambito poco efficace nel nostro Paese, la formazione e la riqualificazione professionale (reskilling) degli adulti.
In uno degli studi più interessanti realizzato in Italia[3] si compie un’analisi attraverso lo Standard Internazionale Isco 2008, incrociandolo con la classificazione Cp 2011 e si comparano i risultati della potenziale esposizione all’IA delle 800 professioni rilevate in Italia da Istat. Il digitale e l’IA secondo la ricerca, consentono il distanziamento sociale, tutelando il lavoro. In realtà consentono anche di immaginare sistemi di organizzazione del lavoro che limitino la prossimità non solo con le persone, ma anche con le macchine e i luoghi di lavoro.
I nostri sistemi di protezione sociale e le tutele contrattuali si basano su sistema su un'occupazione a salario stabile, definizioni chiare del datore di lavoro, delle sue responsabilità e del rapporto di lavoro e una previsione di data di pensionamento. Questo approccio, tuttavia, riguarda un numero sempre più ridotto di persone e ne lascia fuori un numero crescente, poiché la natura mutevole del lavoro sconvolge proprio la capacità regolatoria delle normative tradizionali. La tecnologia sposta la domanda di benefici per i lavoratori da parte dei datori di lavoro verso prestazioni che tutelino le discontinuità occupazionali e di reddito e, soprattutto, il diritto soggettivo alla formazione, di qualità e lungo tutta la vita lavorativa. L’orizzonte full time, a tempo indeterminato, non solo è una promessa tradita ma lascia fuori da ogni diritto tutti gli altri.

 

IA e apprendimento
L’IA determina profondi mutamenti sul lavoro, ma apre, al contempo, molti spazi per rafforzare la persona dentro questi mutamenti. Tra essi, ci aiuta nel superare il sempre meno efficace “fordismo” dei nostri sistemi di istruzione e formazione. Programmi e metodi di apprendimento uguali per tutti e sempre più inutili. Eppure, il nostro Paese aveva iniziato da precursore col piede giusto. Un esempio agli albori della rivoluzione digitale, mai sufficientemente narrato, fu l’introduzione dell’italianissima “Perrottina”, la “programma 101” realizzata da Piergiorgio Perotto[4]. Oltre ad essere il primo personal computer, fu la prima sperimentazione di formazione computer based (CBT), il cui cuore non era cedere le capacità di calcolo alle macchine ma apprendere il pensiero logico alla base del loro funzionamento.

Oggi l’IA aiuta a rendere più adattivo l’apprendimento (adaptive learning) dei lavoratori con formazione meno fordista e più sartoriale. Come sostiene Franco Amicucci[5], l’IA ha una grande potenzialità nell’aumentare la personalizzazione della formazione. Alcune applicazioni di recommendation system  riguardano la possibilità di generare tutor intelligenti che assistano i processi di apprendimento, aiutare l’analisi semantica per la classificazione e il tagging di contenuti formativi e consigliare percorsi di formazione personalizzati. Per consentire alle persone di stare dentro il gorgo dell’innovazione saranno necessari, a livello aziendale e territoriale, ambienti digitali di apprendimento di  upskilling  e re-skilling capaci, in prospettiva, di costruire il  predictive learning , ossia anticipare, in un contesto di rapida obsolescenza di professioni e competenze, l’apprendimento delle competenze necessarie nel futuro prossimo.  Il centro di queste piattaforme non può che essere la persona.

 

Marco Bentivogli è Coordinatore Base Italia Nazionale, esperto di politiche del lavoro e innovazione industriale. È stato Segretario Generale della Federazione Italiana Metalmeccanici Cisl dal 2014 al 2020. Nel 2018 ha lanciato con l'allora viceministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, il Piano industriale per l'Italia delle competenze. Nello stesso anno, con Massimo Chiriatti, il Manifesto Blockchain Italia, per estendere l’utilizzo delle blockchain alla sostenibilità, al lavoro e ai nuovi modelli produttivi. Dal gennaio 2019 è componente della Commissione sull'intelligenza artificiale istituita presso il ministero dello Sviluppo economico. Collabora con numerosi quotidiani e riviste specializzate, tra cui Il Foglio, Il Sole24ore, Il Messaggero, La Repubblica. È autore di numerose pubblicazioni sul rapporto tra tecnologia e lavoro tra cui Contrordine Compagni (Rizzoli, 2018) e coautore di Fabbrica Futuro (Egea, 2019), Indipendenti, guida allo SmartWorking (Rubbettino 2020) e Il lavoro che ci salverà  (Edizioni San Paolo, 2021).



[1] Vedi Massimo Chiriatti, Incoscienza Artificiale , Luiss 2021.
[2] Francesco Carbonero e Sergio Scicchitano, “Labour and technology at the time of Covid-19. Can Ai mitigate the need for proximity?”, in GLO Discussion Paper , No 765.
[3] Carbonero e Scicchitano, op. cit..
[4] Perotto P., P101, quando l’Italia inventò il Personal Computer , Edizioni di Comunità, 1995.
[5] Amicucci F., Apprendere nell’infosfera , FrancoAngeli, 2021.

 

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